Alle 8 in punto Jakob si presentò alla villa
di Delaney. La pioggia continuava incessante, ed ogni cosa era avvolta da una
vistosa cappa di umidità.
In lontananza, oltre la baia, dei lampi
accecanti illuminavano a giorno le acque scure del mare, agitato dal vento e
dalle correnti furiose.
Venne ad aprirgli l'inquietante assistente
di Delaney, che si ostinava a chiamare Maestro, senza specificare la ragione di
questo appellativo ridondante.
Invitato ad entrare nella sala, si trovò in
compagnia di altre cinque persone, a lui totalmente sconosciute, che ebbero la
scortesia di non presentarsi nemmeno.
Seduti ad un tavolo riccamente imbandito,
attesero pazientemente ed in silenzio, l'arrivo del padrone di casa.
Delaney non si fece aspettare. Fece il suo
ingresso nella sala, vestito con una tunica nera, bordata d'oro.
Tutti gli astanti si alzarono dalla sedia e
si affrettarono ad inchinarsi al suo cospetto, baciandogli la mano
ingioiellata.
Tornando a sedersi al proprio posto,
lanciarono occhiate ostili verso Jakob.
La cena si svolse normalmente, tra
convenevoli e scambi di cordialità tra tutti gli astanti, che si rivelarono
essere personalità di spicco di Castlewich e dintorni, proprietari terrieri,
latifondisti, figli di magnati dell'industria ittica.
Delaney conversò amabilmente anche con
Jakob, annunciando orgoglioso che di li a poco gli avrebbe mostrato qualcosa di
inenarrabile.
Finita la cena, Delaney si alzò da tavola.
«Gentili signori, vi ringrazio per l'attesa
paziente che avete mostrato. So bene che fremete dall'impazienza. Quindi non
tardiamo ulteriormente, io stesso sono eccitato e non riesco a trattenere la
mia gioia. Vi prego di seguirmi.»
Detto questo, si avviò fuori dalla stanza,
seguito da tutti i commensali in religioso silenzio.
Superato un lungo corridoio, Delaney aprì
una porta blindata e si fece strada lungo una ripida scalinata di pietra che,
gradino dopo gradino, scendeva sempre più nelle viscere della terra.
Le pareti, umide e ricoperte di muffe, mano
a mano che scendevano, iniziarono a grondare salmastro dalle fessure delle
grosse pietre grezze.
Al termine della discesa infinita, e
superato un ultimo stretto corridoio che puzzava di alghe secche e decomposte,
entrarono in una grande e buia sala circolare, con il soffitto a volta.
Al centro della stanza spiccava un grosso
pozzo, nero come l'occhio vitreo e feroce di uno squalo.
Delaney accese alcune fiaccole tutt'intorno,
mentre gli altri si posizionavano in cerchio ai bordi del pozzo, poi si
avvicinò ad un telo che copriva quello che risultò essere un carretto di legno
cigolante.
Lentamente venne portato al bordo della
cavità.
Delaney si voltò verso Jakob, che era
rimasto titubante in disparte, incapace di decifrare esattamente cosa stesse
accadendo.
«Signor Bloomfield, venga avanti, non abbia
timore. Devo mostrarle una cosa.»
Jakob si avvicinò, tenendo d'occhio il
carretto coperto dal telone bianco, che sembrava muoversi da solo.
«La morte di mio cognato è stata una
casualità. Il suo cuore non ha retto, ed ha esalato il suo ultimo respiro dopo
che ha visto ciò che le vado a mostrare. Non doveva accadere… ma al destino e
alla curiosità non si può mettere freno.»
«Che cos’è tutto questo rituale? Siete
membri di una setta, o cosa?»
«Abbia pazienza signor Bloomfield, una cosa
per volta.»
Detto questo, fece scivolare per terra il drappo,
rivelando una gabbia di ferro rugginoso su un carrello, al cui interno
conteneva una figura aberrante.
Jakob sentì il cuore saltare un colpo, e si
ritrovò a risucchiare aria come se fosse appena riemerso da un immersione in
apnea.
Davanti a lui, l'abominio si muoveva
pigramente, e allo stesso tempo, lentamente, nella mente di Jakob prendeva
coscienza di ciò che i suoi occhi stavano osservando con così tanto terrore.
Nella gabbia, l'essere si mosse, voltandosi
verso Jakob, mostrando il suo volto.
La sue pelle pallida, grinzosa, presentava
diverse piaghe lungo tutto il corpo flaccido e viscido.
Aveva la forma di una foca, o qualcosa di
molto simile, ma il suo volto era chiaramente umano e le pinne dorsali
posteriori erano composte dall'unione dei piedi in un ammasso osceno di carne e
dita allungate, unite da una membrana cartilaginea.
Il suo viso era sfigurato in un orrenda smorfia
di dolore, e con occhi socchiusi, acquosi, lanciava dei lamenti strazianti.
«Che cos'è questa... questa mostruosità?»
«Signor Bloomfield, questa non è una
mostruosità. Ma il frutto di anni e anni di studio biologico e medico. Quello
che ha davanti è il primo Homo Phocidae. Colui che darà il via ad una stirpe di
uomini anfibi che colonizzeranno il mondo assieme agli esseri delle profondità.»
«Esseri della profondità? Stirpe di uomini
anfibi? Ma lei sta vaneggiando!» gridò Jakob, indicando l’essere orripilante.
Delaney scosse la testa.
«Se l'abbiamo portata qua, signor
Bloomfield, è perché abbiamo intenzione di mostrarle qualcosa di inenarrabile e
meraviglioso. L'inizio di un nuovo mondo. Non certo per sentire le sue sterili
rimostranze.»
«Ma di cosa sta parlando?»
«Stiamo per evocare il dio degli abissi, il
signore delle profondità. Non era quello che voleva? Gli portiamo in dono la
mia creatura, il primo milite delle sue armate, con il quale potrà conquistare
la terra invasa da i beceri e insulsi esseri umani.»
«Voi siete pazzi!» gridò Jakob.
Delaney rise sinistramente.
«Pazzi? La veda come le pare. Mi aspettavo
più intelligenza da parte sua. Vorrà dire che chiederà pietà al dio degli
abissi. Se sarà convincente forse la risparmierà.»
«Non rimarrò certo qui a osservare i vostri
rituali pagani e turpi.» rispose Jakob «la
mia intenzione è di denunciarvi immediatamente. Quello che avete fatto è
contrario a qualsiasi principio umano!»
Jakob si voltò, deciso ad uscire prima
possibile da quell'antro oscuro e malefico, riuscendo finalmente a distogliere
lo sguardo dall'abominevole creatura, ma si ritrovò davanti l'assistente di
Delaney.
Tutto accadde velocemente, ma riuscì a
cogliere con la coda dell'occhio una siringa piena di un liquido giallognolo
diretta verso il suo collo.
Prima di perdere conoscenza, vide una cosa
che gli tolse nuovamente il respiro.
L'uomo aveva le mani palmate.
Quando Jakob si ridestò, si ritrovò
completamente avvolto dall'oscurità.
Le torce erano spente, il silenzio era rotto
da un gocciolio costante che risuonava nell'antro con un eco innaturale e
osceno.
Era seduto su una sedia, con la mani e le
gambe legate con delle corde.
Niente si muoveva o si faceva sentire
attorno a lui, così, notando che i nodi ai polsi si erano allentati, iniziò una
lunga ed estenuante lotta con la corda, nel tentativo di liberarsi.
Ci riuscì dopo interminabili sforzi e dopo
aver riavviato la circolazione alla mani martoriate da fitte terribili, iniziò
a sciogliere i nodi alle caviglie,
tenendosi sempre all'erta, nella paura di veder riapparire qualcuno.
Così non avvenne.
Una volta libero e riacquistata la capacità
di muoversi in maniera soddisfacente, la paura lasciò lentamente spazio alla
curiosità.
Trovata una torcia, la accese e si guardò
attorno.
Le pareti, il pavimento e perfino il
soffitto, era cosparso di macchie e spruzzi di sangue.
Jakob trattenne a stento un conato di
vomito, quando vide sul bordo del pozzo, un piede mozzato e sanguinolente,
ancora infilato nella scarpa di pelle nera.
Ovunque c'erano gli inequivocabili segni di
una furibonda lotta, di cui probabilmente, Delaney e i suoi compari non ne
erano usciti vincitori.
Della mostruosa creatura generata dai folli
e psicotici esperimenti di Delaney non c'era traccia.
Dai recessi del pozzo salì improvvisamente
un fetore orrendo, un misto di odore di carne decomposta, pesce avariato e
sangue, seguito da un tremore convulso del pavimento.
Jakob si avvicinò, combattendo strenuamente
la voglia di fuggire a gambe levate.
Passo dopo passo, con la torcia tenuta ben
in alto sopra la testa, tentando di rischiarare più possibile quell'antro
spaventoso, arrivò sul bordo della cavità.
Con un ultimo sforzo di volontà, si sporse
oltre l’orlo.
Il buio era totale, nero come la pece, e
insondabile. Jakob si chinò, e allungò la torcia nel tentativo di vedere
qualcosa.
Rimase così a lungo, quasi sdraiato, con la
torcia che tentava di illuminare l'insondabile oscurità, quando d'un tratto il
fetore acquitrinoso ritornò con una potente zaffata.
Jakob gridò, lasciando cadere la torcia.
Poi la paura ebbe il sopravvento e fuggì via
disperatamente, correndo nel buio del lungo corridoio umido e su per le scale,
inciampando ripetutamente, ma sempre senza voltarsi indietro, finché non uscì
dalla villa, ormai deserta.
Di Delaney, del suo assistente e degli altri
adepti della setta non si seppe più niente e la denuncia esposta da Jakob
Bloomfield alla polizia locale, non portò altro che dubbi e misteri.
Jakob perse il posto al “Marchio del
Mistero”, incapace di riprendersi e scrivere un articolo su ciò che aveva
vissuto.
Gli ci vollero molte settimane prima di
poter ripensare, a mente fredda, agli ultimi istanti in cui si era trovato in
quella grotta spaventosa.
Ed ogni volta, rivedeva chiaro nella sua
mente, come una fotografia indelebile, l’orrida creatura viscida, squamosa e
tentacolata, con il suo volto umanoide e gli occhi rossi, che lo osservava dal
fondo del pozzo assieme all’aberrante esperimento di Delaney.
Ogni volta la paura lo affogava in un
vortice oscuro e solo con un respiro più lungo, riemergeva dal proprio terrore
con l’amara consapevolezza che la sua vita era ormai distrutta per sempre,
inquinata dall’ignoto orrore che aveva visto.
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